La tragedia dell’ascolto – Riflessioni sulla ricezione della musica - Pt. I


LA TRAGEDIA DELL'ASCOLTO 
Parte I – Le colpe degli interpreti ricadono sul pubblico

Di ritorno da un concerto di musica classica nel teatro cittadino, qualche giorno fa, inizio a riflettere su cosa spinge centinaia di individui a imbottigliarsi periodicamente in una sala surriscaldata, costretti per interminabili decine di minuti a un’innaturale immobilità, privati della possibilità di vedere ciò che sta loro attorno, rinchiusi per una sorta di arcano rito misterico, tutti insieme con lo sguardo fisso a un largo altare sul quale, circonfusi di luce abbagliante, compunti sacerdoti con bizzarre vesti officiano una cerimonia tra le meno verbali ma allo stesso tempo tra le più comunicative. A descriverlo così, un concerto sembra davvero qualcosa di surreale. Eppure, a ben guardare, di questo si tratta. Ringraziamo (scegliete se ironicamente o no) Wagner per il buio in sala e la complessiva atmosfera religiosa, che rende legittimo anche lo sguardo di disprezzo che saetta dal melomane verso l’incauto tossitore di turno. Tutto questo per la musica!


Certo, è un’arte che necessita di una ritualità; e non lo dico solo perché sono un musicista. Necessita di una ritualità perché la musica, a differenza di altre forme artistiche, ha bisogno di interpreti, che la devono creare ogni volta da zero. Ma non solo: come la pittura ha una dimensione spaziale, la musica ha una dimensione temporale. Ciascun brano ha, se vogliamo, una propria vita: nasce, si sviluppa, si conclude. L’opera d’arte scompare se ne eliminiamo una parte, e cristallizzare un attimo di musica non si può, non più che comprendere un affresco osservandone un solo centimetro quadrato. In virtù di ciò, non è colui che recepisce l’opera d’arte a condurre il gioco, ma è la musica stessa che impone un numero minimo di regole per la sua ricezione, tra cui, appunto, il fatto che l’attenzione deve estendersi, possibilmente invariata, per una determinata durata temporale stabilita dal compositore.
A simili riflessioni sono stato condotto da un concerto in cui ho percepito chiaramente il calo di attenzione da parte del pubblico durante un Adagio mozartiano che il direttore non è riuscito a sostenere adeguatamente per tutta la sua lunghezza. I cali di attenzione del pubblico sono, purtroppo, all’ordine del giorno nelle sale da concerto, e un loro chiaro segno sono i colpi di tosse. Non quelli, diremmo così, sinceri dei raffreddati, bensì quelli secchi e compulsivi di coloro che Heinrich Böll, in un geniale racconto (Tosse durante il concerto: leggetelo!) chiama “nevrotici”. L’aumentare dei colpi di tosse solitamente segnala un calo di attenzione: non sono uno psicologo e non lo so spiegare, ma credo (a livello del tutto intuitivo) che, se facciamo davvero attenzione a qualcosa, il cervello non permette l’insorgere della molesta tosse da teatro, semplicemente perché è occupato a fare altro.
Una caratteristica spiacevole della tosse da teatro è che è contagiosa. Fateci caso, la prossima volta che assistete a un concerto: qualcuno inizia, e rapidamente l’epidemia si diffonde dalla platea al loggione, in una cacofonica stereofonia, fino a raggiungere, talvolta, livelli imbarazzanti. Mi è capitato di vedere gli orchestrali scambiarsi sguardi stupiti, durante un episodio dei più rumorosi.

Ma c’è, naturalmente, il rovescio splendente della medaglia: accade quando c’è la rara fortuna di ascoltare interpreti di altissimo livello, e che si rivelano in tutta la loro grandezza: sanno mantenere l’attenzione del pubblico dalla prima all’ultima nota, e anche oltre - qui una testimonianza incredibile:



Ciò si evidenzia nell’assoluto e religioso (!) silenzio che accompagna l’esecuzione. L’attenzione è palpabile, si addensa in una specie di aria solida che riempie tutto il teatro. Occasioni emozionanti quanto, purtroppo, rarissime. A me personalmente è capitato non più di un paio di volte, ma è capitato: significa che è possibile.
Ma come spiegare che lo stesso pubblico abbia reazioni così diverse? Cosa è cambiato tra un concerto e l’altro? Semplice: gli interpreti. Sono loro, quindi, i veri responsabili della poca o molta attenzione che il pubblico concede alle esecuzioni? Pare di sì. Un’adeguata gestione del concerto, unita a un’impeccabile preparazione tecnica e a una rara qualità assimilabile a una propensione quasi sciamanica per l’aggregazione, posseduta da alcuni direttori, sono tutti elementi che concorrono alla buona riuscita dal principale scopo di un concerto: comunicare. Come dire: il tuo pubblico si annoia? Colpa tua! Ma naturalmente la questione è più complessa… (continua)

Alessio Venier

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