SundayUp: Three Movements 1, il pippone onto-estetico-musicale


THREE MOVEMENTS, I - un viaggio che per motivi di decenza ho dovuto dividere in tre parti, ma che andrebbe letto nel modo più continuo possibile. 

Se tutto fosse andato per il verso giusto, (questo sarebbe un gran incipit per qualsiasi cosa, tipo un libro di John Fante così come un tweet di Gianni Riotta) la settimana scorsa avreste dovuto beccarvi una amorevole guida per temi della discografia Mogwai, di cui è recentemente uscito il controversamente brutto Rave Tapes. Invece, mi sono ammalato e come sempre quando sono sotto effetto di paracetamolo mi è venuta in mente una combinazione di temi in una serie di rimandi analogici che manco Rimbaud una concatenazione di voci a caso di Wiki. E i Mogwai c'entrano sempre, anche se più come pretesto. Nel 2006 hanno composto una colonna sonora per un film-documentario (la definizione è problematica e fra poco capiremo perché) per Douglas Gordon, glasvegiano come loro, e Philippe Parreno. Il film non l'avete visto nelle sale, per la sua natura sperimentale e, non secondariamente, per questioni di chauvinismo e poca tempestività storica, dal momento che è dedicato interamente a Zinédine Zidane.

L'idea si riassume in un paio di righe: prendiamo Zidane, al tempo nelle fila del Real Madrid, prendiamo uno sbanderno di telecamere HD, superzoom tuttecose, gliele puntiamo addosso per tutti i 90 minuti di una partita a caso e vediamo cosa ne esce. Nel frattempo, un po' di parlato in sottofondo e un po' di Mogwai per le parti salienti. Innanzitutto, l'album musicale che ne è uscito rientra in una zona grigissima che spazia fra il non-molesto e il trascurabile. Penso che di 8 tracce si possano tirare fuori un paio di pezzi veri (al contrario del recentissimo Les Revenants, che è una colonna sonora di una serie Tv francese, molto ben integrata con le immagini e anche da sola ha piena dignità e regala godimento). Il film, dicevamo, nella sua interezza non è una visione particolarmente piacevole o illuminante: il parlato non è significativo, le immagini non rivelano niente di che sul gioco del calcio, pur partendo da un'idea non banale, né apparentemente regalano particolare piacere estetico intese per se stesse.
La chiave per arrivare al valore della cosa sta invece nel sottotitolo e nei contenuti extra, che uno è spinto a consultare proprio per l'insoddisfazione che deriva dalla visione del film da solo. “ZIDANE – a 21st century portrait(sì, c'è tutto, anche se non in italiano), un ritratto del ventunesimo secolo, fatto cioè con la telecamere in HD invece che in olio su tela. Tutta la faccenda acquista improvvisa luce quando cominci a intendere questo film come un ritratto (e qui entro nel terreno minato dell'allegoria, vi prego di seguirmi). Bisogna intendere la telecamera puntata su Zidane (e non sul pallone, come in qualsiasi altra ripresa sportiva), insieme al montaggio di tutte le riprese, come le pennellate del ritrattista sulla tela. Certo, il montaggio è un'astrazione dal punto di vista temporale: il fluire delle immagini non rappresenta il continuum dello scorrere delle cose, come invece sarebbe stato con un unico piano sequenza, ma ciò è dato dalla natura del risultato finale - natura che trovo in ogni caso ambigua, dato che il risultato della pittura è inevitabilmente statico (il ritaglio di tela su cui sono fissati i colori), ma in fin dei conti pure la totalità della pellicola è tale, nonostante il “ritratto del 21mo secolo” di Douglas e Parreno sia per l'appunto un ritratto in movimento, un ritratto composto in modo paritetico da tutti i minuti di ripresa montati che dal primo all'ultimo concorrono a costituire e anzi costituiscono il risultato finale. 

(da segnalare che, con ironia storica non indifferente, la partita di Zidane in realtà non dura 90' perché a un certo punto, in un'azione confusa e non interpretabile dalle riprese delle camere personalizzate, Zinedine si fa espellere, abbandonando il campo prima del tempo).


Come puoi ritrarre un uomo nel XXI secolo? Coi pennelli potresti, ma l'hanno già fatto in molti prima e forse meglio di te. Il mezzo 'moderno' in questo caso è la ripresa, nella sua più alta espressione tecnica, l'HD e per giunta in gran numero (17 telecamere). Otterrai il caso paradossale in cui la pennellata corrisponde al ritratto finito, al pari però della pennellata successiva (il tutto, lo ripeto, al netto della finzione che è il montaggio, per quanto l'atteggiamento del regista sia stato piuttosto neutro da questo punto di vista, non ci sono troppe “costruzioni” nelle immagini). Tutto molto bello, per usare una massima di derivazione calcistica, ma questa conclusione a cui siamo arrivati mi ricorda un episodio bellissimo della storia della cultura europea che se non fai Filosofia all'università non ti capiterà di conoscere altrimenti – e forse neppure in quel caso – cioè Michel Eyquem de Montaigne, semplicemente Montaigne.


Per farla brevissima, questo signore di media nobiltà perigordina, vivo fra Cinque e Seicento, ha scritto un'unica cosa in vita sua, la sua vita raccolta in Essais, cioè saggi, di argomento, lunghezza e profondità molto varia. Spazia dai racconti dei suoi calcoli renali (per tacer delle disfunzioni erettili) all'apologia dello scetticismo cristiano mascheranto da difesa della teologia tradizionale. È una lettura molto istruttiva perché non ha molti filtri, anche quando si viaggia su altitudini mica da ridere. Non credo sia un caso che M. non si proclami mai philosophe. Comunque, se volete leggere un bel libro divulgativo, andate qui. Ma la cosa veramente interessante è la consustanzialità fra la sua persona  (un po' come succede col vostro profilo facebook (no.)) e la sua opera: dentro quel libro c'è Montaigne, Montaigne è quel libro, del quale per una strana piega degli eventi si trova a essere anche l'autore, come direbbe Woody Allen. 

Gli Essais sono un ritratto in movimento, mutuando l'espressione di Starobinski, però su carta: prova ne è fatto che nella versione che possiamo leggere oggi sono indicate le modificazioni e integrazioni apportate da Montaigne nel corso degli anni durante le tre edizioni che l'opera ha conosciuto, contrassegnate da delle (a) ,(b) e (c) all'interno del testo. Non si tratta di 'semplici' revisioni, che sono fisiologiche per qualsiasi testo, dalla Commedia fino alla vostra lurida laurea triennale; si tratta piuttosto, con linguaggio di informatica popolare odierna, di updates apportate dall'autore per aggiornare il suo ritratto, per stare dietro allo (e dare conto di) scorrere del tempo: l'opera è fatta della stessa materia di cui è fatto il suo autore, l'autore cambia nel tempo, l'autore deve cambiare l'opera progressivamente ai cambiamenti che avvengono in lui perché gli sia fedele


Una sorta di ritratto di Dorian Grey che invece che invecchiare per conto suo viene continuamente ripennellato dal suo stesso creatore, che contemporaneamente ne è l'oggetto: più o meno la stessa cosa che succede per Zidane, ma nell'arco temporale di (quasi) una partita di calcio, invece che di una vita intera. Insomma, il film di Douglas e Parreno dovrebbe essere inteso come un ritratto, nel senso di dipinto, di cui è stato srotolato il DNA, per così dire: se il film fosse compresso in un istante sarebbe esattamente un quadro, se un quadro potesse dispiegarsi assomiglierebbe alle riprese montate di Zidane – un ritratto del 21mo secolo. 


(Three Movements continua la settimana prossima con la seconda parte, dove le cose si complicheranno chiamando in causa Cézanne e Google Street View)

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